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Mission – Perché Milgram

Nel luglio 1961 un annuncio comparso su un giornale di New Haven, Connecticut, cerca volontari per uno studio sulla memoria condotto dal Dipartimento di psicologia della prestigiosa Università di Yale: quattro dollari per un’ora di disponibilità.

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Ogni candidato prende parte, con un secondo prescelto, a un test sugli effetti della punizione nell’apprendimento. Due i ruoli: allievo e insegnante. A separarli una parete. Il primo, legato a una sedia, con un elettrodo al polso; l’altro davanti a un generatore di corrente con trenta interruttori a segnare l’intensità della scossa sprigionata, da 15 a 450 volt. La progressione viene specificata da indicazioni chiare: da Slight Shock a Danger: Severe Shock, con gli ultimi interruttori contrassegnati dalla dicitura xxx.

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Le regole sono semplici: ripetere correttamente sequenze casuali di parole. A ogni errore, l’insegnante punirà l’allievo premendo i pulsanti, fino all’ultimo. Al termine di una serie di esperimenti gli scienziati elaboreranno i risultati, stabilendo l’efficacia pedagogica del castigo.

I ruoli vengono stabiliti dal caso, ma il sorteggio è truccato. A Stanley Milgram (1933-1984), psicologo sociale che dirige la ricerca, non interessa infatti studiare la memoria e l’apprendimento, bensì l’obbedienza e il suo fragile rapporto con la morale. Per tale motivo, chi subisce le scariche è in realtà un attore. Oggetto dell’esperimento è l’altra persona coinvolta, ignara della messinscena e del dubbio che la ispira: fino a che punto un uomo comune (l’insegnante), spinto e legittimato dall’autorità di un terzo (lo scienziato), sarà disposto a fare del male a un estraneo (l’allievo), per la sola ragione che così gli viene ordinato?

L’attore recita bene il copione, sbagliando deliberatamente le sequenze. E, sebbene le scosse siano finte, di quelle più deboli si lamenta appena, ma all’aumentare dell’intensità impreca, si contorce, urla di smettere, sino ad ammutolire in un silenzio completo. Lo scienziato esorta l’insegnante a non curarsene, proseguendo le punizioni. Per quanto fastidiose, garantisce, le scariche non provocano danni. Nessun motivo di angoscia, dunque, ma anche nessuna alternativa: il test va portato a termine, sarebbe puerile interromperlo.

Due terzi dei partecipanti continuano fino al livello massimo. Tra diverse incertezze e un bisogno crescente di rassicurazione, obbediscono comunque. Malgrado sappiano per esperienza quotidiana – negli Stati Uniti la corrente domestica ha la tensione di 110 volt, meno di un quarto della più alta scossa inflitta – che quel castigo potrebbe risultare fatale.

Milgram ne trae una conclusione precisa:

Gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro e non è motivata da nessuna particolare aggressività, può, da un momento all’altro, rendersi complice di un processo di distruzione. Ancora più grave è il fatto che la maggior parte di loro non ha le risorse necessarie per opporsi all’autorità, anche quando si accorge di compiere atti malvagi.

In altri termini, individui scelti tra la popolazione di una tranquilla cittadina americana fulminano, più o meno senza fiatare, il proprio vicino di casa, perché un signore con il camice bianco e l’aria da scienziato, in un laboratorio universitario, ha domandato loro di farlo.

500px-Graph_of_Milgram-Experiment.svgL’esperimento suscita sconcerto perché conduce a esiti imprevisti. Milgram aveva chiesto a colleghi e studenti un pronostico sui risultati e gli interpellati avevano ipotizzato che la gran parte dei soggetti non si sarebbe spinta oltre i 150 volt, pensando che una spontanea inibizione a infliggere dolore a un innocente, o convincimenti di altra natura, avrebbero indotto la maggioranza a disobbedire.

Le cose, però, sono andate diversamente. Accettarlo significa riconoscere una défaillance etica non trascurabile. Se si vuole, il lato oscuro dell’obbedienza: alcune azioni e comportamenti possono venir eseguiti senza esitazione se costituiscono la risposta ad un comando. E la questione non riguarda soltanto gli psicologi, perché annoda in un viluppo intricato sottomissione all’autorità e male politico.

Pochi mesi prima che Milgram inizi la sua ricerca con i cittadini di New Haven, fa scalpore il processo intentato a Gerusalemme contro il gerarca nazista Adolf Eichmann, incriminato per la deportazione di milioni di ebrei d’Europa verso i campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. L’atteggiamento dell’imputato sbalordisce, perché Eichmann, sino all’ultimo, si dichiara innocente: si è limitato a organizzare dei «convogli ferroviari», obbedendo agli ordini impartitigli dall’alto. «Sono vittima di un equivoco» risponde ai giudici della Corte. E assicura: «Non ho mai ucciso un essere umano». Con il volto raggrinzito da un tic e un’aria da ragioniere triste. Meticoloso, rigido e insicuro come un piccolo borgese: un funzionario ligio, con il vizio della carriera.

milgramTra l’esperimento di Yale e i crimini dei nazisti corre una differenza notevole, che non va sottovalutata. Ma Milgram ipotizza che i due eventi siano legati da un nesso più robusto di quanto si possa a prima vista immaginare. Un rapporto non di equivalenza, ma di continuità. Nel laboratorio ha infatti osservato comportamenti analoghi a quelli che si verificano nelle società autoritarie: la sottomissione acritica di fronte al male, la violenza e l’ingiustizia che diventano routine, un fine che legittima ogni mezzo. Suggerisce allora che all’origine di un comportamento criminale possano esservi non tanto una personalità perversa o un carattere malvagio, ma la soggezione a un ordine, a un rapporto o a un contesto criminali. E, soprattutto, l’incapacità di fornire risposte ragionate, critiche e “morali” alle scelte che la vita non di rado impone.

Dunque, Milgram. Perché educare significa, in breve, fornire gli strumenti concettuali utili a comprendere il contesto sociale in cui si vive e i condizionamenti cui si è soggetti. Vuol dire invitare a riflettere sul grado di moralità delle proprie azioni, mettere in discussione ciò che sembra ovvio, interrogarsi sulla legittimità delle autorità che ci guidano. Ciascuno di noi, come i partecipanti all’esperimento, può trovarsi di fronte a decisioni fatali. Rammentare che spetta a ciascuno di noi decidere se premere o no un pulsante, rendendosi responsabile delle conseguenze di quell’azione, è lo scopo che ispira l’Associazione Milgram.